Buongiorno Notters!
Oggi vi parlo di un romanzo che ha smosso in me emozioni forti, un romanzo che, durante la sua lettura, mi ha spinta a condurre una profonda analisi dell’essere umano in quanto individuo sociale…Un romanzo che fa davvero riflettere sull’importanza delle condizioni in cui si cresce per l’affermazione del proprio io.
Preparatevi a discostarvi dai “classici” romanzi che invadono le vostre librerie, perché in questo libro i temi trattati sono toccanti, per certi versi estremi e molto intimi.
TITOLO: La primavera dell’acero tridente
AUTRICE: Francesca Cay
EDITORE: Self-Publishing
DATA DI PUBBLICAZIONE: 4 luglio 2016
GENERE: Romanzo contemporaneo
PAGINE: 276
FORMATO: Ebook/Cartaceo
PREZZO: € 0,99/€ 8,31
SINOSSI
Un padre stringe in mano un regalo, è mal incartato ma fatto col cuore. Guarda il suo bambino dormire tra lenzuola candide, guarda il bianco del tessuto confondersi con la pelle sottile. Capelli ormai troppo lunghi gli ricadono sul viso, neri come il buio sferzano i lineamenti delicati. Non vuole, ma deve svegliarlo. Sarà un viaggio lungo e pesante per il piccolo Kaede ma non ha scelta, presto lasceranno quell’ospedale e il Giappone per sempre. C’è un aereo che li porterà lontano, verso la salvezza. Da allora sono trascorsi dieci anni, e Kaede continua a osservare il mondo attraverso un vetro interiore, indispensabile barriera per sopravvivere al torpore della propria mente. Un letargo senza fine che lo protegge dal passato, ma che recide la sua umanità. Non ricorda nulla dell’infanzia, del tragico rapporto perduto con la madre. Uno spiraglio di luce sembra farsi strada nei cieli grigi di Londra quando la sua vita da studente universitario s’intreccia con quella di Rey, un giovane biologo australiano. Entrambi custodiscono un segreto, entrambi sembrano legati dal filo del destino. Intanto si affaccia l’autunno, e il vecchio acero nell’ombra del terrazzo si prepara alla quiescenza. Intinge le sue foglie del colore del sangue prima di lasciarle andare. Poi si addormenta, e aspetta la primavera. Questa è la storia di una rinascita. Un romanzo di formazione, ma anche di amicizia e di amore. Alternando tempo della narrazione a flashback, il passato viene compreso, sciolto, rivisitato, esorcizzato. L’accettazione del dolore condurrà i due ragazzi alla maturazione e alla metamorfosi delle loro vite.
RECENSIONE
ATTENZIONE POSSIBILI SPOILER
Ho cominciato la lettura di questo romanzo senza particolari aspettative, il che non è una cosa negativa, anzi; semplicemente, dal titolo non mi è stato possibile evincere l’argomento principale della trama e proprio per questo motivo ho scelto di non leggere la sinossi. Era come se dentro di me sentissi che sarei rimasta sorpresa nello scoprire l’alone di mistero che avvolgeva il titolo, quasi avvertissi la necessità di lasciare che la storia e i suoi personaggi si dispiegassero pian piano, rivelandosi a piccole dosi. Posso dire che mai scelta fu più azzeccata, perché “La primavera dell’acero tridente” è una storia completamente diversa dal solito. Posso affermare con certezza che non leggevo un romanzo del genere da molto tempo e di esserne rimasta piacevolmente sorpresa, oltre che soddisfatta. È una storia che mi ha saziata pienamente, che, giunta all’ultima pagina, mi ha lasciata con una sensazione di benessere addosso, quasi ogni tassello fosse tornato al proprio posto, esattamente dove doveva stare. Nessun dubbio è rimasto vacante, nessuna domanda o incertezza si sono trascinate una volta conclusa la lettura del romanzo. Non solo: mi sono sentita leggera e appagata, perché il protagonista, alla fine di un lungo e difficile calvario, è finalmente riuscito a (ri)trovare sé stesso, comprendendo i problemi subiti in passato e superandoli con successo, seppur con non poche difficoltà.
Il romanzo alterna il tempo presente a flashback sull’infanzia difficile di Kaede, il cui nome riprende quello di uno splendido acero tridente passato di generazione in generazione all’interno della sua famiglia. Nonostante questo continuo scambio di informazioni tra la vita attuale di Kaede, studente universitario a Londra, e quella passata in Giappone, non ho mai perso il filo conduttore del discorso, grazie all’estrema chiarezza, anche cronologica, sfoggiata dall’autrice. Tale precisione si manifesta particolarmente nella capacità di tratteggiare con estrema maestria le ambientazioni, al punto da essermi più volte immaginata passeggiare tra i ciliegi in fiore di Kyoto o nei più famosi quartieri londinesi, sotto una spessa coltre di nuvole grigie intrise di pioggia. La cura dei dettagli è una costante lungo tutto il romanzo e devo dire che l’ho apprezzata molto, perché mi ha permesso d’immedesimarmi al punto da sentirmi parte integrante della storia.
Come accennato sopra, è subito chiaro che l’infanzia di Kaede non sia stata semplice, ragion per cui il romanzo si apre con una vera e propria fuga dal Giappone. Sebbene inizialmente Francesca ci tenga sulle spine, risparmiandosi sui dettagli per aumentare l’effetto suspance, capiamo che il padre di Kaede, Daniel, sta strappando il figlioletto ad una situazione critica, probabilmente costellata da angherie di ogni sorta, che, però, scopriremo solo verso la fine del romanzo.
In seguito a questo breve excursus sul passato, ritroviamo, infatti, un Kaede cresciuto, ma incapace di relazionarsi alle altre persone, timoroso di un qualsiasi contatto sociale e dedito all’isolamento quasi totale. Ciò che più sconvolge, però, è il fatto che non ricordi assolutamente nulla del suo trascorso che intuiamo essere stato terribile; anche lui lo riscopre pian piano insieme al lettore, soprattutto a partire dal momento in cui conosce Rey.
Rey è il suo nuovo insegnante del corso sul comportamento degli insetti, sebbene sia estremamente giovane per quel ruolo. Il suo atteggiamento spontaneo e solare riuscirà lentamente a farlo avvicinare a Kaede, cosa che nessuno era mai stato in grado di fare prima di allora, nemmeno il padre.
“[…] Il suo modo di fare era diventato più sicuro, aveva abbandonato ogni formalità, ogni innaturale premura. Sembrava capace ormai di eludere il suo silenzio, le sue difese sottili come carta velina. Era il pensiero di qualcuno in grado di scrutarlo così a fondo che lo inquietava, quella prepotenza così affabile usata con furbizia. Oppure era solo la sua paura, quel dannato terrore che gli ustionava le mani quando si accostava a ciò che non conosceva. […]”
Inizialmente capita spesso che Rey faccia domande scomode o che tocchi accidentalmente gli argomenti sbagliati, tuttavia non si perde d’animo e, con pazienza e dedizione, continua a frequentare il ragazzo, scoprendo a piccole dosi la bellissima persona che si cela in Kaede e che nessuno ha mai avuto il piacere di conoscere a causa delle barriere da lui stesso imposte.
“[…] Nessuno aveva mai saputo tanto della sua vita privata prima d’ora. Si sentì scoperto, il cuore messo a nudo, così vulnerabile davanti a lui da provarne vergogna. La pece liquida dei suoi occhi implorava clemenza. Non aveva più niente da mostrare, tutto ciò che aveva era già stato esibito. Spostò lo sguardo sul suo bicchiere. Aveva confessato una parte di sé a una persona che conosceva appena. Assurdo. Non era stato obbligato a farlo, ma aveva scelto di rispondere. Perché un grido di aiuto scaturito dall’inconscio? Si irrigidì a quel pensiero ridicolo. […] Ma come avrebbe potuto aiutarlo un estraneo? E a far cosa poi? Nemmeno l’aiuto di Dio sarebbe servito, tutto era inutile, come grandine sul mare. […]”
Kaede si rende conto che il suo rapporto con il giovane professore, nonché vicino di casa, sta diventando qualcosa di più forte e profondo, tale da rassomigliare un sentimento che non ha mai provato: l’amicizia. Ben presto subirà una profonda crisi interiore, ritrovandosi a fare a pugni con sé stesso, diviso tra la paura di spingersi oltre, di sperimentare nuove sensazioni, le stesse da cui si è scrupolosamente tenuto alla larga per tutta la vita, e la voglia di lasciarsi andare, di abbandonarsi a qualcuno, di aprirsi, di raccontarsi, di rivelarsi completamente senza più inibizioni.
“[…] Eppure aveva sentito la sua mancanza, una specie di vuoto, al quale non era abituato. Rey era capace di centrare con sfortunato tempismo gli argomenti sbagliati, di spingerlo al limite delle sue paure, ma era anche in grado di rimediare. La sua presenza allentava il disagio, alleggeriva il peso di quella mente occlusa. Per la prima volta si era sorpreso a pensare a lui non come a un estraneo, né come al suo docente. Un amico: poteva definirlo tale? Era proprio questo a inquietarlo? Un neonato sentimento d’amicizia che lo spaventava e che desiderava ad un tempo. […]”
Kaede invidia il carattere spontaneo di Rey, che non si lascia scomporre da nulla, che non ha paura di niente, che vive alla giornata, senza lasciarsi intimorire dalle novità, come invece accade costantemente a lui.
“[…] Era una reazione a lui completamente estranea, opposta alla sua rigidità. Tranquillità, normalità, autocontrollo. Doti che a lui erano precluse. […]”
Kaede non se ne ricorda, ma molti anni prima ha già avuto un amico, un vero amico, proprio quando viveva a Kyoto: Yuki.
Yuki era energia e vitalità allo stato puro, l’essenza della gioia fatta a bambino. Per il periodo di tempo in cui furono amici, la vita di Kaede fu sopportabile, addirittura piacevole per lui.
“[…] Una risata, di quelle che scaldano il cuore, forte, rassicurante, che non si dimenticano.
Yuki era il sole.
«Sicuro! Basta… dai che schifo! Ho promesso!»
Kaede era la sua ombra.
«Le promesse si mantengono, ricordati.»
E quando il sole cala, le ombre scompaiono.
Tutto diventa buio e nulla si può più distinguere. […][…] Assieme a Yuki poteva farcela. Non era più solo, con lui c’era il suo braccio destro, il suo indispensabile aiutante, la sua ancora. […] Kaede aveva capito che una regolare manutenzione è indispensabile se si vuole far sopravvivere qualcosa nel tempo, e tale principio, doveva applicarsi agli oggetti quanto ai sentimenti. […]”
Pagina dopo pagina, nel corso dei numerosi flashback sulla sua infanzia trascorsa inGiappone, ci scontriamo con la figura gelida e scostante della madre Natsumi, che si rivela estremamente esigente nei confronti del piccolo Kaede. Pretende che il figlio si dedichi esclusivamente allo studio e che diventi il numero uno della scuola che frequenta e che è particolarmente rinomata per il suo livello di difficoltà. Per tutta l’infanzia, Kaede non fa altro che cercare di raggiungere questo risultato, studiando fino a consumarsi, subendo punizioni estreme, come il digiuno forzato, l’isolamento in un ripostiglio o l’imposizione di un insegnante privato che non esita ad usare violenza su di lui.
Il padre Daniel è perennemente fuori per lavoro e rientra a casa di rado, tuttavia coglie subito delle anomalie nei metodi educativi della moglie, nonché nel comportamento ossessivo di Kaede nei confronti dello studio. Nel momento in cui quest’ultimo perde l’amico Yuki, viene travolto da un vero e proprio tracollo emotivo, cui Natsumi decide di far fronte somministrandogli degli antidepressivi di nascosto dal padre. Accecato dall’amore/timore che prova per lei, Kaede obbedisce e per un breve periodo sembra rinsavire, tornando ad applicarsi agli studi proprio come Natsumi tanto desidera. Ciononostante, Daniel decide in segreto di portarlo via da lì il prima possibile, strappandolo dalle grinfie di una madre malata mentalmente e da un Giappone contraddistinto da un’educazione particolarmente severa. Fissa la partenza per Londra proprio nel giorno in cui escono i famigerati risultati a scuola: Kaede è riuscito ad essere il primo, ma non è felice. Vicino a sé, nota una bambina in lacrime sgridata dal genitore.
“[…] Il genitore le stringeva forte il polso, la rimproverava. Con lo sguardo deluso le chiedeva perché non fosse riuscita a mantenere il primo posto anche qui.
[…] Era un’illusione, Yuki aveva cercato di farglielo capire tante volte. La sua libertà, era solo un’utopia. In quell’elenco, non vi era traccia di salvezza. Essere il numero uno significava lottare per tenere stretta la posizione. Significava lottare per non deludere chi si aspettava che quel numero non cambiasse mai. Quel numero era una nuova prigione, e sua madre non l’avrebbe abbracciato, né baciato, nè lodato. Gli avrebbe detto solo di continuare. Si rese conto, guardando quei due sconosciuti, che aveva lavorato fino a consumarsi per costruire la sua prossima gabbia, con la facciata di una sontuosa villa a coprire le sbarre. […]”
Nel momento in cui Kaede, ormai adulto, viene travolto dalla fiumana di ricordi sul proprio passato, rischia d’impazzire per il dolore provato e per il rimpianto…Ma ancora una volta, Rey si prende cura di lui, standogli vicino e aiutandolo ad accettare ciò che ormai niente e nessuno potrà cambiare. È soprattutto grazie a Rey se Kaede riesce a risollevarsi e a farsi forza per un futuro migliore.
“[…] Gli aveva detto che doveva prendersi il suo tempo, riconciliarsi col passato, affrontarlo, accettarlo, assimilarlo come parte del proprio io, non sarebbe stato un cammino agevole. Roseo o maledetto, ordinario o singolare, il passato ci guida nella costruzione del futuro. Noi siamo il nostro passato, che cerchiamo di setacciare dagli errori e dalla sofferenza per avanzare nei gradini successivi. Fondamento necessario se si vuole proseguire nella fabbricazione dell’edificio, ignorarlo significa erigere baracche destinate a crollare. Per Kaede era questo il momento di innalzare i muri portanti. Un po’ di pazienza, aveva concluso, e sarà uno splendido palazzo.[…]”
C’è molto amore in questa storia, ma non si tratta di quell’amore che siamo abituati a leggere e che pure ci piace tanto. Qui l’amore emerge nei piccoli gesti d’amicizia, nelle preoccupazioni di un padre assalito dai rimorsi, nel gesto di un fratello che non riesce a perdonarsi un errore che gli è risultato fatale. L’amore che nasce sulla scia del dolore e che, proprio per questa sua caratteristica, si fa strada con discrezione, ma è più potente di qualunque avversità.
“[…] Sentì di essere governato da un’emozione violenta, istintiva, indomabile.
Gelosia.
L’aveva riconosciuta quell’emozione feroce, l’ibrido tra la furia e la frustrazione. C’era voluta una graziosa ragazza sulla soglia di casa per risvegliare la sua mente. Una minaccia che lo scuotesse, che lo mettesse di fronte alla possibilità di perdere il posto accanto a lui. Era difficile da accettare. Quasi impossibile da ammettere. Ma adesso era troppo chiaro, non avrebbe potuto sconfessare quella verità. Non era stato capace di comprendere, di mettere a fuoco cosa avesse dentro. Non aveva mai voluto pensarci davvero. […]”
Il romanzo di Francesca è costellato da numerosi momenti introspettivi, aiuta a riflettere sull’importanza dei veri sentimenti e su ciò che davvero conta nella vita per autodefinirsi come persone.
Ho amato il personaggio di Yuki, la sua spontanea saggezza di bambino e la ventata di positività e fiducia che ha portato nella vita di Kaede, sebbene per un breve lasso di tempo. Tuttavia, non ci sono personaggi che non mi siano piaciuti, perché nel loro ruolo sono delineati tutti con incredibile precisione e coerenza: persino la crudele Natsumi, che alla fine trova uno spiraglio di riscatto.
La sofferenza di Kaede é papabile lungo l’intero corso del romanzo, grazie alla narrazione in prima persona che permette a chi legge di conoscerne i pensieri con estrema precisione. Allo stesso modo, ho amato follemente Rey, perché mi è stato subito chiaro che solo lui potesse sostituirsi al sole che un tempo era stato Yuki.
Ho trovato la padronanza stilistica di Francesca davvero superba. Il romanzo è intenso, coinvolgente, intriso di emozioni che in nessun modo possono lasciare indifferente il lettore. Oltretutto lancia un messaggio bellissimo, ragion per cui tutti dovrebbero leggerlo: il passato non si può cambiare, per quanto brutto possa essere stato, ma affrontandolo e accettandolo, si può utilizzare per costruire un futuro migliore. Sempre.
Consiglio a tutti la lettura di questo libro.
Grazie Francesca per il tuo piccolo capolavoro.
Laura Z.
Il mio giudizio: