Ciao Notters 🙂
Dopo aver avuto il piacere di leggere e recensire per voi il bellissimo libro di Giada Baretta, questa adorabile autrice ha accettato di dedicarmi un po’ del suo tempo per conoscerla meglio e togliermi qualche curiosità!
E voi, non siete curiosi? 😉
Ciao Giada!
Ti ringrazio innanzitutto per aver accettato di fare questa chiacchierata con me e con Notting Hill Books. 🙂
Diamo il via a questa breve intervista, sei pronta?
- Una vita non basta è una storia delicata, intima, ed è autobiografica. Cosa ti ha spinta a crearne un libro?
Prima di cominciare, solo una piccola precisazione: sono io che ringrazio voi. Per la splendida recensione, per la passione con cui vi dedicate alla lettura offrendo la possibilità, ad altri, di fare altrettanto. C’è un così gran bisogno di persone così!
Ora, cominciamo.
Cosa mi ha spinta? Dunque, in effetti si tratta davvero di una spinta. La vita mi ha spinta e i miei occhi sono inciampati sul viso di mia madre. Scrissi questo romanzo il giorno dopo il mio ventesimo compleanno. Al tempo, mamma era molto triste per varie ragioni. Da sempre si trascinava tutti i suoi vecchi e pesanti fantasmi. Così, ho pensato: perché non essere io, stavolta, a farle un regalo? Ho sempre amato scrivere, ma era una passione fine a stessa e ciò non mi bastava. Volevo sfruttare questa passione per creare qualcosa di buono. Inoltre, il desiderio di conoscere le mie radici mi aveva sempre accompagnata; volevo sapere chi era mia nonna, volevo sapere perché mi sentivo così un tutt’uno con lei che mai avevo conosciuto. Pensai così che la scrittura potesse avere una sorta di funzione terapeutica. Quando metti nero su bianco la tua storia, i tuoi dolori, puoi finalmente vederli per quello che sono e prenderti in mano. Mamma doveva fare proprio questo: guardare i suoi mali che non voleva vedere, dare loro un nome, sciogliere i nodi che da trent’anni le stringevano la gola, e trovare pace. Un lutto non elaborato rimane lì, sospeso, irrisolto, e continua a fare male. Una volta terminata la storia, pensai di farla leggere a due carissime professoresse che avevo avuto il piacere e la fortuna di conoscere durante gli anni delle superiori. Una di loro, la mia insegnante di lettere, proprio per il mio ventesimo compleanno, mi aveva regalato un bellissimo taccuino arancione per incitarmi a scrivere; diceva che scrivevo bene, che avevo un dono, e mi esortava a continuare a farlo in ogni occasione. Dopo averlo letto, mi hanno convinta a pubblicarlo. O quantomeno a provarci. Ci ho pensato per diverso tempo, tant’è che, dopo averlo scritto, è passato più di un anno prima che lo pubblicassi. I miei obiettivi erano due: aiutare mia madre e conoscere mia nonna. Il terzo, la pubblicazione, non era previsto. E forse è proprio questa la ragione per la quale il romanzo è rimasto così personale, esattamente come era nato.
- Dalla tua biografia ho potuto notare che sei un’autrice molto giovane… Come nasce il tuo amore per la scrittura?
Mi chiedi come nasce il mio amore per la scrittura, ma, esattamente, come nasce un amore? Non so se esiste una risposta. Credo che la nostra storia d’amore sia nata un po’ per convenienza. Sono sempre stata piuttosto taciturna, una di poche parole. Non ho mai amato parlare molto. Preferivo di gran lunga il suono del silenzio, per poter ascoltare tutto quanto accadeva intorno a me. Occhi e orecchie per me sono sempre stati tutto, la bocca mi era quasi in più. Ascoltare e osservare. Ma c’era in me il desiderio di raccontare quel che ascoltavo e quel che notavo, e come fare se parlare mi era così antipatico? Scrivevo. Era così liberatorio, era così bello. Non dovevo sostenere nessuno sguardo, non c’erano interlocutori, potevo dire qualunque cosa senza sentirmi giudicata o incompresa. La scrittura è dolce, la voce ha paura di questa dolcezza. Preferiamo, perché più facile e meno imbarazzante, parlare di cose futili, banali, divertenti, spesso con termini grossolani e mai ricercati, esprimendo in modo semplice argomenti semplici. Non ho mai sentito nessuno parlare usando lo stesso linguaggio che usano i personaggi di un romanzo. Quando si scrive tutto è possibile, e questo l’ho sempre trovato irresistibile. La parola vergata è capace di andare a fondo, di non fermarsi in superficie, di parlare alle anime e non alle orecchie. Volevo una voce anch’io, e quella scritta meglio si adattava a ciò che volevo dire.
- Hai o hai avuto un luogo, un momento, un posto tutto tuo che ti ha ispirata nello scrivere il tuo libro?
No, non proprio. Nessun luogo preciso, ma ovunque mi trovassi, e molti momenti. A partire dai più banali, in realtà. Passeggiando con il cane, attraversando la città in bicicletta, parlando con qualche amico, attraversando il centro storico, compiendo le azioni più ordinarie. Osservavo, e ogni particolare – una foglia strana, una parola mai udita, un gesto inaspettato e sorprendente, una macchina che sfrecciava o un’altra che invece arrancava – mi suggeriva un pensiero diverso, che a sua volta apriva la strada ad un’infinità di riflessioni, di associazioni, di tante domande e poche risposte. Il libro stesso non offre molte risposte, ma la possibilità di interrogarsi.
- Leggendo, ho notato che le figure maschili che fanno parte della storia hanno quasi un ruolo da antagonista. Perché?
Non c’è una ragione. La storia è autobiografica, romanzata ma pur sempre reale, perciò il fatto che le figure maschili abbiano ruoli poco lusinghieri non è voluto.
- In “Una vita non basta” Rebecca, Gianna e Mara sono descritte dettagliatamente, sembra quasi di conoscerle. Tre donne forti ma fragili allo stesso tempo, che quando amano lo fanno senza riserve, con una sensibilità femminile che le unisce quasi come il cordone ombelicale… Per ricreare questi tre personaggi nel tuo libro hai usato anche la tua fantasia o è tutto veritiero al 100%?
Le caratteristiche dei personaggi sono reali, seppure rappresentino soltanto alcuni dei tratti delle tre donne. Per ognuna di loro ho volutamente evidenziato una caratteristica particolare, o due, senza sottolinearle tutte, proprio per delineare le tre figure, quasi come si potessero riassumere in una sola parola, in un’unica immagine, contenuta – ennesima beffa del destino – già nel significato dei loro nomi.
- Hai riscontrato delle difficoltà nello scrivere nero su bianco la tua storia? Se sì, quali sono stati i momenti “peggiori”?
Prendere piena consapevolezza di sé non è una passeggiata. Fare verità, talvolta è doloroso. Andare a fondo, rischiando di sprofondare, è pericoloso. Accettare le situazioni, le relazioni, le dinamiche familiari così come sono, e rendersi effettivamente di come sono, è come ricevere un pugno. Riportare i dolori di una giovane che ha appena perduto la madre, è stato difficile. Maneggiare i dolori altrui e trasformarli in un romanzo, trasformarli in poesia, in prosa, in arte. Non è stato facile scrivere i pensieri di Mara dopo la terribile perdita, senza lasciarsi trasportare dal suo dolore e bagnarlo con lacrime nuove.
- Ho letto dalla tua autobiografia che questo è stato il tuo esordio letterario ma che in realtà studi all’università e lavori in uno studio commercialista. Come concili questi impegni con la scrittura? Pensi che il tuo futuro sarà fare la scrittrice?
Ad oggi, non sono più una studentessa universitaria e nemmeno un’impiegata. Ho abbandonato gli studi per diversi motivi, mentre il lavoro l’ho perso un anno più tardi. Conciliare questi ed altri impegni con la scrittura era una necessità. Poter prendere in mano carta e penna (la sua prima stesura è stata cartacea e “frammentata”: scrivevo dietro ai biglietti degli autobus, nei post-it, su qualunque pezzo di carta avessi a portata di mano, perché le parole arrivavano nei momenti più disparati e dovevo catturarle all’istante per non perderle), era un sollievo. Ogni minuto libero era buono per scrivere, per evadere dalla realtà. Il futuro è ancora un punto di domanda, ma sicuramente mi piacerebbe tentare questa carriera. Un’amica mi ha posto spesso la seguente domanda: “Vuoi scrivere o vuoi fare la scrittrice?”. Sto ancora cercando una risposta.
- A chi si imbatte in queste lettura è chiaro fin dalle prime righe che, oltre all’amore per la scrittura, hai anche quello per la lettura.
Che genere ami maggiormente? Qual è il tuo libro preferito?Scegliere un solo libro è difficile, ma credo che quello che più ho apprezzato sia stato “Pomodori verdi fritti al caffè di Whistle Stop”, di Fannie Flagg, autrice che adoro. Adoro le storie d’amore tormentate, gli amori dannati, i drammi. Ma, comunque, leggo quasi tutto, ad esclusione di fantasy e “sole-cuore-amore”, piuttosto raro che ne legga; amo leggere storie sognando che un giorno, le stesse cose, possano accadere anche a me.
- Giada, una curiosità: che progetti hai per il futuro? Hai qualcosa che puoi già svelare a chi, come me, ha apprezzato il tuo libro e aspetta di poterne leggere un altro?
Al momento sto lavorando a tre romanzi contemporaneamente. Non posso svelare di più, per il semplice fatto che ho il vizio di stravolgere tutto fino all’ultimo momento. Conto però di pubblicarne almeno uno entro l’anno.
- Ultima domanda, forse un po’ personale: che cosa pensi ti riserverà questo nuovo anno? 🙂
Per l’anno nuovo non ho aspettative. Ho qualche speranza, questo sì. Spero di portare a termine almeno uno dei tre romanzi sopracitati… e spero possa essere apprezzato quanto questo, se non di più!
Un abbraccio grande a Giada e ancora grazie per questa bella opportunità!
Edna. ❤